Anemia falciforme o drepanocitosi, una patologia genetica rara che va ben oltre il danno ai globuli rossi e che presenta complicanze che riducono la funzionalità di organi vitali. Le crisi falcemiche associate a dolore (VOC), distintive della patologia, sono eventi gravi, imprevedibili e possono rappresentare delle vere emergenze sanitarie a causa della loro rapida evoluzione e alta mortalità. Ne soffre il 39% dei pazienti, con una media di oltre 5 eventi/anno. Si tratta di crisi dolorose che interessano torace, addome e articolazioni e che, improvvise e frequenti, vengono spesso gestite nella propria abitazione (nel 24% dei casi), senza ricorrere all’assistenza medica. Come vengono affrontate? Bevendo e riposandosi (74%).
È quanto emerge da “SWAY” (Sickle Cell World Assessment Survey), una indagine internazionale, sponsorizzata Novartis, su oltre 2 mila pazienti affetti da malattia a cellule falciformi, che ha coinvolto diversi Paesi tra cui l’Italia.
Le crisi vaso occlusive (VOC) e le relative complicanze acute però, rappresentano solo la punta visibile dell’iceberg: tra una crisi di dolore e l’altra il processo della vaso-occlusione continua ad avere luogo e produce effetti che causano danno vascolare, conducendo a un progressivo danno agli organi con riduzione della funzionalità. In assenza di trattamento adeguato, quindi, può esservi un impatto sull’aspettativa di vita dei pazienti che, anche nei paesi sviluppati, è inferiore di circa 20 anni rispetto alla popolazione generale.
A sottovalutare di più i rischi di questa patologia subdola, secondo l’analisi, sono i pazienti italiani. Dei 55 intervistati, infatti, ben la metà dichiara di non ritenere opportuno rivolgersi al medico o all’ospedale in caso di VOC poiché considera i trattamenti disponibili non risolutivi e decide di rimanere a casa aspettando che il dolore passi. Il 72% inoltre afferma di sperare in una alternativa terapeutica più efficace rispetto a quelle attualmente disponibili.
Il forte impatto negativo sulla qualità della vita dei malati emerge anche dall’indagine narrativa (in corso) realizzata dall’Area Sanità e Salute di ISTUD, con la collaborazione di Novartis Italia, secondo la quale i pazienti rappresentano la malattia come qualcosa di “grave e invalidante…sei giovane con un corpo di un vecchio… incapace di vivere una vita normale e lavorare come tutti con serenità”. Inoltre il 40% degli intervistati dichiara di assentarsi dal lavoro a causa della malattia con una media di 47 giorni di lavoro annui e, nei casi più gravi, di ricorrere alle trasfusioni anche ogni 12 giorni.
Questi temi sono al centro del ciclo di 4 incontri promossi da Inrete, con il contributo non condizionante di Novartis, che si apre oggi con i tavoli regionali di Emilia-Romagna e Veneto e che proseguirà con Sicilia e Lombardia. Gli appuntamenti si propongono di avviare una discussione costruttiva sulla “malattia a cellule falciformi” alla presenza di clinici, tecnici, istituzioni locali e centrali e associazioni di pazienti.
A oggi l’unica arma risolutiva per combattere la malattia è il trapianto di cellule staminali o di midollo osseo. In alternativa, i pazienti ricorrono a trasfusioni di sangue o, per ridurre il numero di crisi, all’idrossiurea. La ricerca però non si ferma e sono in arrivo nuove strategie terapeutiche come spiega la Prof.ssa Lucia De Franceschi, Dipartimento di Medicina, Azienda ospedaliera universitaria di Verona e referente per Anemie Rare Eurobloodnet (Rete Europea malattie rare):
“In Europa è stato recentemente approvato un anticorpo monoclonale che agisce su un target specifico, la p-selectina che media la adesione cellulare, prevenendo e riducendo significativamente le crisi vasocclusive. La sua introduzione nella pratica clinica ci permetterà di valutarne anche l’impatto sulla patologia nel lungo termine così come sulla gravità delle manifestazioni cliniche che coinvolgono organi target come il polmone, il rene, il cervello, l’osso o il fegato, con una possibile ricaduta positiva sulla qualità di vita del paziente”.
Vita la cui aspettativa oltre a ridursi implica dolore, deterioramento fisico e cognitivo con diminuzione di produttività lavorativa e scolastica in aggiunta a un numero maggiore di consumo di risorse sanitarie, ambulatoriali ed ospedaliere. Anche recarsi in ospedale, in particolare per i giovani pazienti, può rappresentare una sfida. Infatti, come commenta la Dottoressa Raffaella Colombatti, dell’Oncoematologia pediatrica dell’Università di Padova, “l’adolescente e il giovane adulto si recano meno volentieri in ospedale perché i percorsi di gestione delle urgenze della drepanocitosi sono meno conosciuti nel mondo degli adulti e non sempre il paziente trova dei medici esperti sulla sua malattia, per cui prova a rimanere a casa e gestirsi, finchè può. Un altro aspetto cruciale – prosegue Colombatti – è l’età della transizione: molti adolescenti devono imparare a gestire autonomamente la propria patologia e il passaggio dal mondo della pediatria al mondo dell’adulto non è semplice’.
Anche secondo Fabrizio Canonici e Michel Gyslene Nkongne – rispettivamente Presidente e Vice Presidente Associazione Malattia Drepanocitica – e Costanza Musci, Consigliere della Federazione Nazionale delle Associazioni UNITED Onlus- il ruolo del caregiver non è facile poiché “deve imparare a riconoscere i segnali che anticipano una crisi, soprattutto in un paziente adolescente, per cercare di diminuirne al massimo l’impatto e la sofferenza”. Sofferenza che, sempre secondo i rappresentanti delle due associazioni, “deve essere evitata con trattamenti che intervengano per prevenire le crisi, perché quando la crisi è passata hai già sofferto molto e quindi, aspettiamo con ansia farmaci che possano ridurre al minimo l’effetto delle crisi o che le possano prevenire”.